Tra calcoli di equilibri di bilancio e problemi sociali da risolvere, si stanno preparando a deliberare la determinazione delle aliquote e delle detrazioni Imu, quei Comuni che ritengono di variarle rispetto a quelle già previste dalla legge 214/2011, il cosiddetto decreto Salva Italia convertito, soprattutto per quanto riguarda la prima casa o abitazione principale.
Pertanto entro il termine di approvazione del bilancio preventivo deve essere adottata la delibera comunale che fissa aliquote e detrazioni e approvato il regolamento comunale Imu, nel caso si volessero introdurre disposizioni particolari o regimi speciali. Il probabile slittamento al 30 giugno (decreto milleproroghe in fase di conversione) del termine per l'approvazione dei preventivi 2012 dei Comuni sta causando una certa tensione considerato che il 16 giugno è la scadenza dell'acconto Imu. Però alcuni Comuni hanno già deliberato, come il Comune di Parma che, ad opera del commissario straordinario in sostituzione della Giunta dimissionaria, ha quantificato nel 6 per mille l'aliquota Imu per l'abitazione principale.
Ma, in ogni caso, è ritornata l'imposizione fiscale sull'abitazione principale con l'introduzione, anticipata di due anni, della nuova imposta municipale propria (Imu) in vigore dal 1 gennaio di quest'anno.
Saranno assoggettate a tassazione non solo le abitazioni di lusso (A1), le ville (A8), i castelli (A9), ma tutti gli immobili adibiti ad abitazione principale e relative pertinenze. Ai fini Imu, per abitazione principale si intende: «l'immobile, iscritto o iscrivile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore dimora abitualmente e risiede anagraficamente». Si deduce che l'Imu è dovuta quando l'immobile è accatastabile, a prescindere dall'accatastamento, e cioè quando sia ultimato e abitabile.
La base imponibile. La base imponibile si ottiene moltiplicando la rendita catastale, già rivalutata del 5%, per il coefficiente 160 per i fabbricati del gruppo A (esclusa la cat. A10) e categoria catastale C/2 (cantina, solaio, magazzino), C/6 (autorimessa) e C/7 (posto auto), intese come uniche pertinenze dell'abitazione principale.
Le aliquote. Per l'abitazione principale e relative pertinenze l'aliquota è dello 0,40%, ma i Comuni possono aumentare o diminuire fino a 0,2 punti percentuali. Quindi il campo di applicazione potrà variare da un minimo dello 0,20% a un massimo dello 0,60%.
Per le seconde case e gli altri immobili l'aliquota prevista è dello 0,76% (aliquota ordinaria), con facoltà di modifica da parte dei Comuni dello 0,30% in più o in meno, con una forbice di applicazione che va dallo 0,46% all'1,06%.
Le relative modifiche dovranno essere deliberate dal Consiglio comunale entro il termine per l'approvazione del bilancio di previsione.
Detrazione per la prima casa. Per alleviare l'impatto della tassazione sull'abitazione principale è stata rispolverata l'antica detrazione per la prima casa. La legge 214/2011 prevede una detrazione di 200 euro dall'imposta lorda, fino a concorrenza del suo ammontare, rapportati al periodo dell'anno durante il quale l'immobile è destinato ad abitazione principale e ciò deve risultare all'anagrafe. Anche in questo caso i Comuni, nell'ambito della loro autonomia impositiva e nel rispetto degli equilibri di bilancio, possono elevare la misura della detrazione fino ad azzerare l'imposta dovuta.
Detrazione per i figli. E' stata prevista, in sede di conversione del decreto, un'ulteriore detrazione ammontante a 50 euro per ciascun figlio di età non superiore a 26 anni, a condizione che dimori abitualmente con i genitori nell'unità immobiliare adibita ad abitazione principale e che ciò risulti dall'Anagrafe comunale. Per questa ulteriore detrazione è stato previsto un tetto massimo di 400 euro, corrispondente a 8 figli residenti.
Immobili non più assimilati alla prima casa. Unità immobiliari concesse in uso gratuito a parenti, abitazioni affittate a canone concordato, casa sfitta di proprietà di cittadini italiani residenti all'estero, sono alcuni esempi di immobili non più considerati assimilati alla prima casa e, quindi, soggetti alla nuova imposta comunale.
Immobili esenti. Risultano non imponibili ai fini dell'imposta municipale propria gli immobili appartenenti allo Stato e agli altri Enti pubblici, gli immobili di proprietà di Stati esteri e di organizzazioni internazionali, i fabbricati appartenenti alla Santa Sede e destinati esclusivamente al culto, immobili utilizzati per fini culturali o da organizzazioni no profit.
Quindi, via libera all'autonomia regolamentare dei Comuni, ai sensi dell'art.52 del Dlgs 446/97, su aliquote e detrazioni tenendo conto delle caratteristiche soggettive e oggettive dei contribuenti, soprattutto proprietari della prima casa, e dello status economico-sociale del territorio.
Menfi [Agrigento - Sicilia]. Vista l'estrema facilità con la quale è possibile pubblicare contenuti attraverso un blog, ho deciso di disporre di questo potente mezzo di comunicazione per interfacciarmi con tutti i cittadini. Grazie a questa piattaforma web farò conoscere le mie idee, le mie prospettive politiche e mi confronterò, in maniera costruttiva, con tutti gli elettori del Comune di Menfi.
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martedì 7 febbraio 2012
giovedì 6 maggio 2010
Sallusti: Le figuracce di D'Alema, una casa a 633mila lire
L'ordine dei giornalisti dovrebbe prendere provvedimenti contro Massimo D'Alema. A chiederlo è Alessandro Sallusti, il vicedirettore de Il Giornale, che martedì è stato protagonista a Ballarò di un vivace scambio polemico con il presidente del Copasir, Massimo D'Alema «Il problema non sono io - dice Sallusti - ma il giornalista D'Alema che ha detto delle cose per cui l'ordine dei giornalisti dovrebbe intervenire d'ufficio». Il vicedirettore de Il Giornale, ospite di Rai Due a «Il fatto del giorno», dice di «aspettarsi da D'Alema delle scuse sul piano personale» ma, aggiunge, che sotto altri profili, come quello della tutela legale, non si aspetta «nulla e non credo - dice - che farò nulla, perché io sono contrario alle querele e alle vie giudiziarie. Sul piano deontologico - ribadisce - vorrei però che l'ordine intervenisse».
Da il giornale.it
Sallusti si riferisce alla memorabile inchiesta giornalistica denominata «Affittopoli» (lodata da MicroMega fino al Washington Post), uno dei protagonisti di quello scandalo, Massimo D’Alema, dimostra di soffrire ancora per la campagna di stampa che lo costrinse ad abbandonare il suo immobile da 633mila lire al mese, di canone, a Trastevere.
Mai in 40 anni di carriera politica D’Alema aveva perso il controllo. Mai aveva urlato in quel modo. Mai s’era permesso di insultare pubblicamente un giornalista, in questo caso il nostro condirettore Alessandro Sallusti, che a Ballarò gli ha ricordato come proprio lui dovesse essere l’ultimo a fare la morale sulle case degli altri. Già, perché la storia della casa di D’Alema in via Musolino a Trastevere tanto chiara non è. È pacifico, perché mai sono arrivate smentite e mai sono state annunciate querele, che D’Alema ottenne quella casa usufruendo di una corsia preferenziale. Corsia che gli permise di scavalcare in graduatoria chi era prima di lui e chi ne aveva più diritto. L’esponente dell’allora Pds riuscì nell’impresa di aggiudicarsi l’ambìto appartamento dell’Inpdap grazie alla presunta intercessione di potenti amici finiti nei guai per la mega inchiesta romana sui Palazzi d’oro. Questo almeno è quello che hanno rivelato all’epoca i protagonisti dell’affaire D’Alema: sindacalisti, dirigenti, coinquilini.
La storia che ancora oggi, a distanza di 15 anni, manda fuori dai gangheri l’ex premier ha inizio nel 1990, anno in cui D’Alema presenta la domanda per ottenere l’appartamento. Nel febbraio del ’91, così come raccontò al Giornale il 3 settembre del 1995 Piergiorgio Sarale, ex segretario confederale della Cgil torinese e membro del Cda degli Istituti di previdenza della direzione generale del Tesoro, durante una normale riunione dei componenti il Cda, tra le delibere da approvare ce n’era una nascosta fra le “varie”, quelle che di solito vengono approvate senza prestarci tanta attenzione. Era la famosa delibera riguardante l’appartamento di via Musolino con la quale si proponeva alla vecchia affittuaria di spostarsi in un nuovo appartamento e di saldare comodamente il debito in comode rate e a tasso zero. E così accadde. Sarale non si rese conto di nulla fino al giorno successivo, quando incontrò un sindacalista di Essere Sindacato, l’ala dura della Cgil che faceva capo a Fausto Bertinotti, che gli disse: «Ti porto i complimenti dei lavoratori e degli sfrattati. Bel socialista che sei... bel venduto». Alla replica piccata di Sarale, il militante duro e puro aggiunse: «Avete approvato quella delibera scandalosa per regalare la casa al compagno D’Alema e adesso caschi dalla nuvole?».
Non si trattava di un appartamento qualunque. La lista degli aspiranti affittuari era lunghissima. Una bella casa, con un canone d’affitto di 633mila lire al mese a due passi dal centro di Roma, non è occasione di tutti i giorni. D’Alema non se la fece sfuggire. Sarale non mosse più un dito e il perché lo spiegò lui stesso: «Ero impaurito. L’invito che ricevetti dai superiori fu quello di starmene zitto e buono (...). Pensare a D’Alema che soffia la casa a un lavoratore bisognoso di un tetto, mi dica lei, che ideale di sinistra è?».
Ma per volontà di chi quella “magica” delibera finì quel giorno fra le “varie” da approvare? Per capirlo basta rileggere le parole che l’ex direttore generale degli istituti di previdenza del Tesoro, Giovanni Grande, coinvolto nell’inchiesta romana sui Palazzi d’oro, fece ai pm nel 1992. Grande spiegò che a raccomandare l’inquilino più famoso d’Italia fu Mario Giovannini, ex Pci, stabile punto di riferimento del partito al Tesoro fin dal 1968 e anche lui coinvolto nell’inchiesta. «Un giorno - disse a verbale Grande - Giovannini mi ha portato Massimo D’Alema (...) per chiedere un appartamento, cosa che io gli ho fatto (...)». E ancora: «Giovannini è nel cda degli istituti dal 1969 (...). Chi l’ha voluto? Chi lo ha imposto? Chi lo ha tenuto per 30 anni? (...) Ho avuto la certezza che Giovannini operasse per conto del Pci-Pds (...). Le contribuzioni, tangenti, chiamatele come vi pare, che Giovannini ricavava dagli imprenditori, finivano in parte a Botteghe Oscure». Lo stesso Giovannini, sentito dai magistrati nel 1993, non nascose la circostanza: «Grande (...) avrà avuto il piacere per altre ragioni di conoscere l’onorevole D’Alema al quale è stato dato un appartamento, ma solo in seguito a un mio intervento».
Finita l’inchiesta del Giornale, mentre tutti gli altri vip, compreso Walter Veltroni, restano nei loro appartamenti previdenziali, D’Alema si presenta al Maurizio Costanzo Show e annuncia che lascerà l’appartamento. Se pochi giorni prima aveva affermato di non aver «goduto di un trattamento speciale o privilegiato», in tv cambia musica definendo «un’ingiustizia che alcuni possono pagare l’equo canone mentre altri, la maggioranza, devono accettare condizioni meno favorevoli».
Questa è la storia che fa infuriare D’Alema, e che tanti si erano dimenticati o non conoscevano perché tanto tempo è passato e perché anche su internet i dettagli erano praticamente irrintracciabili. Se adesso la storia della casa di D’Alema è accessibile a tutti, bisogna ringraziare soltanto lui. Ma non ditelo in giro sennò s’incazza.
Da il giornale.it
Sallusti si riferisce alla memorabile inchiesta giornalistica denominata «Affittopoli» (lodata da MicroMega fino al Washington Post), uno dei protagonisti di quello scandalo, Massimo D’Alema, dimostra di soffrire ancora per la campagna di stampa che lo costrinse ad abbandonare il suo immobile da 633mila lire al mese, di canone, a Trastevere.
Mai in 40 anni di carriera politica D’Alema aveva perso il controllo. Mai aveva urlato in quel modo. Mai s’era permesso di insultare pubblicamente un giornalista, in questo caso il nostro condirettore Alessandro Sallusti, che a Ballarò gli ha ricordato come proprio lui dovesse essere l’ultimo a fare la morale sulle case degli altri. Già, perché la storia della casa di D’Alema in via Musolino a Trastevere tanto chiara non è. È pacifico, perché mai sono arrivate smentite e mai sono state annunciate querele, che D’Alema ottenne quella casa usufruendo di una corsia preferenziale. Corsia che gli permise di scavalcare in graduatoria chi era prima di lui e chi ne aveva più diritto. L’esponente dell’allora Pds riuscì nell’impresa di aggiudicarsi l’ambìto appartamento dell’Inpdap grazie alla presunta intercessione di potenti amici finiti nei guai per la mega inchiesta romana sui Palazzi d’oro. Questo almeno è quello che hanno rivelato all’epoca i protagonisti dell’affaire D’Alema: sindacalisti, dirigenti, coinquilini.
La storia che ancora oggi, a distanza di 15 anni, manda fuori dai gangheri l’ex premier ha inizio nel 1990, anno in cui D’Alema presenta la domanda per ottenere l’appartamento. Nel febbraio del ’91, così come raccontò al Giornale il 3 settembre del 1995 Piergiorgio Sarale, ex segretario confederale della Cgil torinese e membro del Cda degli Istituti di previdenza della direzione generale del Tesoro, durante una normale riunione dei componenti il Cda, tra le delibere da approvare ce n’era una nascosta fra le “varie”, quelle che di solito vengono approvate senza prestarci tanta attenzione. Era la famosa delibera riguardante l’appartamento di via Musolino con la quale si proponeva alla vecchia affittuaria di spostarsi in un nuovo appartamento e di saldare comodamente il debito in comode rate e a tasso zero. E così accadde. Sarale non si rese conto di nulla fino al giorno successivo, quando incontrò un sindacalista di Essere Sindacato, l’ala dura della Cgil che faceva capo a Fausto Bertinotti, che gli disse: «Ti porto i complimenti dei lavoratori e degli sfrattati. Bel socialista che sei... bel venduto». Alla replica piccata di Sarale, il militante duro e puro aggiunse: «Avete approvato quella delibera scandalosa per regalare la casa al compagno D’Alema e adesso caschi dalla nuvole?».
Non si trattava di un appartamento qualunque. La lista degli aspiranti affittuari era lunghissima. Una bella casa, con un canone d’affitto di 633mila lire al mese a due passi dal centro di Roma, non è occasione di tutti i giorni. D’Alema non se la fece sfuggire. Sarale non mosse più un dito e il perché lo spiegò lui stesso: «Ero impaurito. L’invito che ricevetti dai superiori fu quello di starmene zitto e buono (...). Pensare a D’Alema che soffia la casa a un lavoratore bisognoso di un tetto, mi dica lei, che ideale di sinistra è?».
Ma per volontà di chi quella “magica” delibera finì quel giorno fra le “varie” da approvare? Per capirlo basta rileggere le parole che l’ex direttore generale degli istituti di previdenza del Tesoro, Giovanni Grande, coinvolto nell’inchiesta romana sui Palazzi d’oro, fece ai pm nel 1992. Grande spiegò che a raccomandare l’inquilino più famoso d’Italia fu Mario Giovannini, ex Pci, stabile punto di riferimento del partito al Tesoro fin dal 1968 e anche lui coinvolto nell’inchiesta. «Un giorno - disse a verbale Grande - Giovannini mi ha portato Massimo D’Alema (...) per chiedere un appartamento, cosa che io gli ho fatto (...)». E ancora: «Giovannini è nel cda degli istituti dal 1969 (...). Chi l’ha voluto? Chi lo ha imposto? Chi lo ha tenuto per 30 anni? (...) Ho avuto la certezza che Giovannini operasse per conto del Pci-Pds (...). Le contribuzioni, tangenti, chiamatele come vi pare, che Giovannini ricavava dagli imprenditori, finivano in parte a Botteghe Oscure». Lo stesso Giovannini, sentito dai magistrati nel 1993, non nascose la circostanza: «Grande (...) avrà avuto il piacere per altre ragioni di conoscere l’onorevole D’Alema al quale è stato dato un appartamento, ma solo in seguito a un mio intervento».
Finita l’inchiesta del Giornale, mentre tutti gli altri vip, compreso Walter Veltroni, restano nei loro appartamenti previdenziali, D’Alema si presenta al Maurizio Costanzo Show e annuncia che lascerà l’appartamento. Se pochi giorni prima aveva affermato di non aver «goduto di un trattamento speciale o privilegiato», in tv cambia musica definendo «un’ingiustizia che alcuni possono pagare l’equo canone mentre altri, la maggioranza, devono accettare condizioni meno favorevoli».
Questa è la storia che fa infuriare D’Alema, e che tanti si erano dimenticati o non conoscevano perché tanto tempo è passato e perché anche su internet i dettagli erano praticamente irrintracciabili. Se adesso la storia della casa di D’Alema è accessibile a tutti, bisogna ringraziare soltanto lui. Ma non ditelo in giro sennò s’incazza.
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