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venerdì 4 aprile 2014

22° Anniversario dell'omicidio del maresciallo Giuliano Guazzelli

Nella mattinata di oggi, nella ricorrenza del 22° anniversario della scomparsa del Maresciallo Maggiore “A” Giuliano Guazzelli assassinato dalla mafia, a seguito di vile agguato in territorio di Villaseta sul viadotto “Morandi”, l’Arma dei carabinieri della Provincia di Agrigento intende rinnovare i propri sentimenti di profonda riconoscenza dell’attività svolta dal sottufficiale nel contrasto alla criminalità mafiosa della provincia, di cui era “memoria storica” e profondo conoscitore.

Alle ore 10:00, presso il viadotto “Morandi”, luogo del feroce assassinio, ove è ubicata una lapide commemorativa, verrà deposta una corona di fiori offerta dalla locale Amministrazione Comunale.

Una corona di alloro, alle ore 10:30, sarà invece deposta presso la caserma “M.M.A. M.O.V.C. G. Guazzelli” di Villaseta, via M.llo Pezzino n. 1.



Chi era Giuliano Guazzelli. Nacque a Gallicano il 6 aprile nel 1933. Si arruolò giovanissimo nell’Arma era arrivato quasi subito in Sicilia nel 1954. Prima una breve parentesi in Puglia. Nell'isola del sole e della mafia ha lavorato a Palermo, Santa Ninfa, Palma di Montechiaro e Agrigento. In Sicilia ha conosciuto Maria Caterina Montalbano che divenne sua moglie. Giuliano Guazzelli si stabilì così nel paese della consorte: a Menfi in provincia di Agrigento. Giuliano e Maria Caterina hanno avuto tre figli: Riccardo, Teresa e Giuseppe. E’ stato stretto collaboratore del colonnello Giuseppe Russo e del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, entrambi uccisi dalla mafia. Nella sua prestigiosa carriera aveva ricevuto decine di encomi solenni. Negli ultimi anni aveva lavorato, come comandante del nucleo di polizia giudiziaria della procura di Agrigento, al fianco del giudice Rosaro Livatino. Prima di essere ucciso il sottufficiale era sulle tracce dei killers del "giudice ragazzino" che venne freddato il 21 settembre del 1990. Guazzelli era soprannominato il "mastino", per la tenacia con cui portava avanti ogni indagine che lo aveva reso uno dei migliori servitori dello Stato. Il suo modo di investigare ancora ora fa scuola. Era un uomo di grandi principi morali ed etici, lavoratore instancabile, memoria storica dell’apparato investigativo italiano che si occupava di cosche e droga. Giuliano Guazzelli venne ucciso il 4 aprile del 1992 ad Agrigento. Il sottufficiale stava ritornando a Menfi dopo una giornata di lavoro. La sua auto venne preceduta da un furgoncino dai quali vennero fuori due sicari armati di mitra e pistole. Il giorno prima era tornato da Roma dove aveva sentito un importante collaboratore di giustizia. Sul luogo del delitto si precipitò subito il giudice Paolo Borsellino che contava sull’apporto del maresciallo per portare avanti importanti inchieste antimafia in provincia di Trapani. Al delitto i giornali e le televisioni nazionali e regionali dedicarono importanti servizi di apertura e di prima pagina. Ai funerali parteciparono le massime cariche dello Stato fra cui l’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga.

martedì 2 ottobre 2012

On line i beni confiscati ai mafiosi

La Regione siciliana ha messo in rete “Beni confiscati ai mafiosi. Patrimonio dei siciliani” sito internet che consente di verificare e monitorare l’uso che la Regione fa dei beni sequestrati.

Un luogo virtuale pensato per dare visibilità alle attività realizzate per la gestione e l’utilizzo dei beni sottratti alla mafia.



Sito Internet: www.patrimoniodeisiciliani.it

giovedì 19 luglio 2012

Paolo Borsellino, 20 anni fa la strage

Sono passati vent'anni dalle stragi. I pm siciliani cercano di risalire alla conoscenza dei fatti, ma somigliano più ad archeologi che a magistrati del 2000. Quando le indagini arrivano con così tanti anni di ritardo come si può sperare di risalire alla verità? 

A Palermo c'è in corso l'inchiesta sulla presunta trattativa tra Stato e mafia che secondo il presidente Napolitano è fondata «sul nulla», a Caltanissetta si stanno «rivisitando» le indagini sulla strage Borsellino. In questo contesto si innesta lo scontro Quirinale-Procura di Palermo perché il presidente Napolitano non vuole essere intercettato, nemmeno casualmente, mentre i pm vogliono avere il diritto di controllare.

La questione è chiara. Napolitano dice in sostanza che secondo la Costituzione il capo dello Stato non è intercettabile, per cui se capitasse di essere ascoltato mentre parla con un intercettato, i pm debbono subito distruggere le bobine senza alcun controllo. I pm invece replicano che non distruggono un bel niente e che il colloquio dell'ex ministro Mancino con il Quirinale può servire nelle indagini essendo Mancino sotto inchiesta per la «trattativa». Le posizioni sono perfettamente delineate, con l'avvertenza che il procuratore capo di Palermo, Messineo, non ha firmato la conclusione delle indagini, segno evidente che non le condivide, almeno in parte. Dove non c'è nulla di chiaro è sugli altri fronti. Le indagini su via D'Amelio furono sbagliate perché si credette alle false dichiarazioni di Scarantino mandando in galera gente che non c'entrava per niente. Ora ci si chiede se non fu un volontario «depistaggio», il che è una sciocchezza tenuto conto della personalità del defunto questore La Barbera e del fatto che a quell'inchiesta partecipò una task force di 40 uomini. Possibile che fossero tutti depistatori? Ci fu un abbaglio ma non malafede?

Credo comunque che la pista degli appalti sulla quale indagava Borsellino e il rapporto dei Ros su «Mafia & Appalti» sia da rivalutare (un paio di giornalisti palermitani avrebbero cose interessanti da riferire). Poi c'è la questione della «trattativa». L'allora ministro della Giustizia Giovanni Conso nel 1993 tolse il carcere duro a 300 boss mafiosi nel quadro di una intesa con la mafia per far cessare le stragi, oppure la sua fu, come afferma, «una decisione autonoma»? E il generale Mori e il colonnello De Donno andarono a trovare Vito Ciancimino nella sua casa romana per «trattare» con Cosa Nostra, oppure per avere informazioni sul latitante Provenzano? . . . .

A Palermo, per l'anniversario di Paolo Borsellino, Giovane Italia e Azione Universitaria in collaborazione con Forum XIX Luglio organizzano la tradizionale Fiaccolata, alla quale prenderanno parte, tra gli altri, il segretario nazionale del Pdl Angelino Alfano, il coordinatore nazionale Ignazio La Russa, il sindaco di Roma Gianni Alemanno, il vice presidente del Parlamento Europeo Roberta Angelilli e l'ex ministro della Gioventù Giorgia Meloni.
La Fiaccolata partira' da Piazza Vittorio Veneto (Statua della Liberta') alle ore 20:00 e terminera' in Via D'Amelio. Gli organizzatori hanno voluto accogliere l'appello di Salvatore Borsellino e deporranno accanto la lapide non una corona di fiori ma un grande tricolore.

20 anni di lotte nel suo nome…Paolo Vive!

giovedì 24 maggio 2012

Funerali di Stato per Placido Rizzotto. Napolitano: “La mafia è ancora pericolosa, ma finirà”.

Alle 10:00 nella Chiesa Madre di Corleone, si sono tenuti i funerali di Stato di Placido Rizzotto sindacalista ucciso dalla mafia 64 anni fa. Un evento speciale celebrato l'indomani della commemorazione della strage di Capaci per volere del Capo dello Stato con l'intenzione di creare un diretto collegamento tra i grandi della lotta alla mafia e il sindacalista eroe d'altri tempi. Presenti quindi in chiesa il Presidente Giorgio Napolitano, il Fondatore di Libera Don Luigi Ciotti, la Segretaria Generale della Cgil Susanna Camusso. Funerali solenni a Corleone chiesti e ottenuti grazie all'impegno di “Articolo21” e celebrati dall'Arcivescovo di Monreale Salvatore Di Cristina.

Migliaia di persone hanno voluto omaggiare il sindacalista, al quale, con più di mezzo secolo di ritardo, è stata restituita almeno la dignità di una sepoltura dopo una vita trascorsa per metà impegnata nella lotta alla mafia e per l’altra metà nelle viscere della terra.
Per permettere a tutti di seguire la cerimonia sono stati installati dei maxi schermo all'interno della Villa Comunale e in Piazza Falcone e Borsellino.

Difficile da credere ma è stato possibile recuperare le sue spoglie solo a settembre 2009 e avere la conferma del dna solo due anni dopo, ovvero a marzo scorso. Il nipote omonimo del sindacalista che da anni si batte per far riconoscere allo zio lo status di vittima di mafia, tempo fa aveva spiegato: “Il riconoscimento non ci interessa per gli eventuali benefici di legge concessi ai parenti delle vittime, che tra l'altro sarebbe poca cosa, ma per il suo valore simbolico e morale. Sarebbe un atto di giustizia per Rizzotto ma anche per le decine di sindacalisti uccisi come lui dalla mafia.”

"Il nostro nemico siamo noi stessi, con le nostre paure che ammazzano la speranza, con i nostri piccoli interessi, con i nostri egoismi!"
(Frase tratta dal film “Placido Rizzotto”)

Fonte: antimafiaduemila.com

mercoledì 23 maggio 2012

In memoria di Giovanni Falcone

Giovanni Falcone (Palermo, 18 maggio 1939 – Palermo, 23 maggio 1992)

"La mafia non è affatto invincibile; è un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio e avrà anche una fine. Piuttosto, bisogna rendersi conto che si può vincere non pretendendo l'eroismo da inermi cittadini, ma impegnando in questa battaglia tutte le forze migliori delle istituzioni." 
(Giovanni Falcone)


Ventesimo anniversario della strage di Capaci, in cui morirono il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre agenti Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro.

giovedì 5 aprile 2012

Mafia Spa: la prima azienda italiana per fatturato

"Pizzo" dilagante in Sicilia. Paga il 70 per cento dei commercianti di Palermo, Trapani, Agrigento, Caltanissetta, Catania. A Messina si arriva anche all'80-90 per cento. Pagano tutti. Mensilmente e puntualmente. Per i boss e i picciotti in carcere. Per le loro famiglie e per gli avvocati che li difendono. A Palermo si va dai 15 euro per banco al mercato ai 250-500 dei negozi, ai 500-1.000 degli esercizi del centro, ai 3 mila dei supermercati, al 5-7% dell'importo dei lavori nei cantieri edili.

I dati si leggono nel Focus Sicilia del XIII Rapporto di Sos Impresa. Significativo il titolo: "Le mani della criminalità sulle imprese" e infatti ad essere taglieggiate, nella sola Isola, sono almeno 50 mila. Poche e costanti nei numeri, purtroppo, le denunce contro gli estortori. Ma anche contro l'usura, fenomeno criminale in crescita. Dal 2009 al 2011 in Sicilia hanno chiuso circa 100 mila imprese, di queste 30 mila per grave indebitamento e per usura. Il costo complessivo per l'intero sistema imprenditoriale regionale sfiora i 5 miliardi di euro, pari al 6% del Pil siciliano. Dietro il pizzo e l'usura, in Sicilia, c'è Cosa Nostra, che controlla capillarmente e militarmente il territorio. «Una rapina sociale ai danni delle imprese - si legge nel rapporto - contro cui si fa poco o niente.

I dati attraversano il dibattito dei decisori politici, a Roma e a Palermo, come se fossero acqua fresca». Risultato: il patrimonio e i capitali accumulati, fanno della Mafia Spa - secondo i dati del Focus al 31 dicembre 2010 - la prima azienda italiana per fatturato (138,09 miliardi di euro) ed utile netto (104,70 miliardi di euro) e una delle più grandi per addetti e servizi. «Si discute di aiuti per il Mezzogiorno, di fiscalità di vantaggio, di lotta al sommerso e all'evasione, senza voler rendersi conto - continua il rapporto - che, perdurando il "Fattore M" come Mafia, l'economia continuerà a ristagnare, gli investimenti prenderanno altre strade, che forse costano di più alle imprese, soprattutto quelle estere, ma certamente sono più tranquille. La politica dello struzzo non ha pagato e non paga. Se non si prenderà atto che in un terzo del Paese non è garantita la libertà di fare impresa e non c'è un mercato in cui merci, uomini ed imprese possono competere liberamente, non si determinerà quella svolta necessaria ed attesa. Fare impresa a Palermo e in Sicilia non è la stessa cosa che a Treviso o in Irlanda e non è solo una questione di infrastrutture, burocrazia e credito. Sembra una banalità, ma gli interventi necessari a contrastare effettivamente la criminalità languono. Non si interviene nelle concrete relazioni economiche che si determinano fra imprese e mafia, non si rende conveniente il rifiuto all'imposizione estorsiva».

mercoledì 4 aprile 2012

Giuliano Guazzelli, il ricordo dei colleghi a 20 anni dal suo omicidio

La caserma dei Carabinieri di Villaseta è stata intitolata al maresciallo maggiore dei Carabinieri Giuliano Guazzelli, Medaglia d’Oro al Valor Civile alla memoria, trucidato dalla Mafia ad Agrigento il 4 aprile 1992.

La cerimonia si è svolta nella mattinata di oggi, mercoledì 4 aprile 2012. Schierato un plotone in Grande Uniforme Speciale, in rappresentanza dei Carabinieri del Comando Provinciale di Agrigento, alla manifestazione sono intervenuti il Comandante della Legione Carabinieri “Sicilia”, Generale di Divisione Riccardo Amato ed Autorità civili, militari e religiose della provincia.


La lapide marmorea scoperta all’interno dell’atrio della caserma riporta la seguente scritta:  
Sottufficiale di elevatissime qualità professionali, impegnato in delicate attività investigative in aree caratterizzate da alta incidenza del fenomeno mafioso, operava con eccezionale perizia, sereno sprezzo del pericolo ed incondizionata dedizione al dovere ed alle Istituzioni, fornendo costanti e determinanti contributi alla lotta contro la criminalità organizzata fino al supremo sacrificio della vita, stroncata da proditorio ed efferato agguato criminale. Eccelso esempio di preclare virtù civiche ed altissimo senso del dovere. Villaseta – Agrigento, 4 aprile 1992 

Il sottufficiale, era nato a Gallicano (Lu) il 6.4.1934, ed era residente a Menfi (AG), coniugato con tre figli maggiorenni. Arruolato il 16.11.1951 nell’Arma dei Carabinieri e dal 1954 in servizio in Sicilia, era responsabile della Sezione di Polizia Giudiziaria Carabinieri della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Agrigento.

Fonte: grandangoloagrigento.it

domenica 11 marzo 2012

Funerali di Stato per Placido Rizzotto

La storia di Placido Rizzotto

Le ossa che erano state ritrovate nel settembre 2008 nelle foibe della Rocca Busambra sono quelle del sindacalista di Corleone Placido Rizzotto, che, secondo le prime indagini, venne ucciso il 10 marzo 1948 da Luciano Liggio e da due suoi complici, Pasquale Criscione e Vincenzo Collura (che inizialmente confessarono, poi ritrattarono e furono prosciolti per insufficienza di prove). Che le ossa siano di Rizzotto lo ha stabilito la polizia scientifica di Palermo comparando il Dna di quelle ossa con quelle di suo padre, il cui corpo è stato riesumato e risulta compatibile al 76%. Questo riapre la fosca pagina della mafia di Corleone che poi divenne «dominus» di Cosa Nostra siciliana. Subito dopo la guerra il paese era controllato dalla mafia, che aveva come capo il medico Michele Navarra, notabile democristiano, come suo vice Governale e come picciotti Luciano Liggio, «Cocciu di focu», Totò Riina e Bernardo Provenzano. Liggio aveva la sua abitazione davanti alla caserma dei carabinieri dove c'era allora il capitano Carlo Alberto Dalla Chiesa, tutti personaggi dalle storie intrecciate che ritroveremo cinquant'anni dopo a Palermo.
Liggio cominciò a 17 anni uccidendo il primario dell'ospedale dei Bianchi, dottor Nicolosi, per dare modo al medico boss Michele Navarra di prendere il suo posto. Dopo qualche anno chiese a Navarra che sarebbe stato il caso di sbarazzarsi anche di Placido Rizzotto, 34 anni, segretario della Camera del lavoro, che teneva comizi in piazza incitando i contadini ad occupare le terre («Quello mette strane idee in testa alla gente»).

In realtà Liggio aveva un altro scopo: si era invaghito di Leoluchina Sorisi, fidanzata di Rizzotto. Tanto insistette che Navarra gli diede il consenso ad uccidere il sindacalista. Dicono le prime indagini che Rizzotto venne sequestrato all'uscita da un bar del paese da Liggio, Criscione e Collura e condotto per le campagne fino alla Rocca Busambra dove lo gettarono in una «ciaccazza» profonda cinquanta metri. Durante questa camminata per le campagne il gruppo era stato visto da un pastorello di 13 anni, Giuseppe Letizia. Impressionato da quella visione il ragazzino era stato colto da febbre e portato in ospedale. E lì il primario Navarra gli fece una iniezione letale. Il medico boss tuttavia aveva capito che Luciano Liggio gli aveva chiesto di uccidere Rizzotto per suoi motivi personali, e cominciarono i primi contrasti, per cui Navarra aveva mandato un suo commando a sparare a Liggio che nel frattempo si era rifugiato in campagna assieme a Riina e Provenzano che «aveva un cervello di gallina, ma sparava come un dio». Avvenne un conflitto a fuoco in cui Liggio rimase ferito. Lo scontro avrebbe potuto proseguire se non fosse intervenuta la potente mafia di Altofonte che indusse Navarra a perdonare Liggio, che in fondo aveva agito per amore. Il medico boss perdonò, ma fece male i suoi conti perché «Cocciu di focu» lo attese al ritorno da una visita a Palermo e crivellò la sua auto a raffiche di mitra uccidendo il suo boss e un medico che lo accompagnava, Domenico Russo.

Sbarazzatosi di Placido Rizzotto e del suo boss, Luciano Liggio era diventato l'incontrastato capomafia di Corleone. Ai funerali di Rizzotto, la sua fidanzata Leolochina Sorisi gridò: «A chi ti ha ucciso mangerò il cuore». Invece accadde il contrario: ospitò a casa «Lucianuzzu». Fece arrivare una squadra di muratori e aggiustò la sua abitazione dicendo che stava per ricevere un parente dall'America. Invece in casa c'era Luciano Liggio, che venne ritrovato dietro una finta parete dagli uomini del questore Mangano (o pare del colonnello dei carabinieri Milillo: la questione non è mai stata chiarita).
Ma Liggio ebbe modo di cavarsela ai processi. Per l'uccisione di Rizzotto fu assolto con formula dubitativa - all'epoca il procuratore di Palermo era Pietro Scaglione - perché il cadavere della vittima non era stato ancora trovato, ci volevano troppi soldi per scandagliare le foibe della Rocca Busambra, e solo nel 2008 si poterono estrarre le ossa. A quel tempo la giustizia palermitana funzionava così. Per tutti gli altri delitti, al processo fatto a Bari per legittima suspicione fu assolto per insufficienza di prove perché ai componenti della Corte d'assisse alla vigilia del verdetto arrivò questa lettera: «Liggio e gli altri corleonesi sono innocenti. Il loro sangue ricadrà sulle vostre famiglie». E così Liggio tornò libero e scese dalle montagne a Palermo con Riina e Provenzano trovando rispetto e ammirazione tra i mafiosi di città. Cominciò a fare soldi con i flipper, poi crescendo in potenza entrò nella Cupola di Cosa Nostra e fece uccidere tutti i capi della mafia palermitana, dal «principe di Villagrazia» Stefano Bontade a Totuccio Inzerillo e a tutti gli altri. La faida degli anni 80 la vinsero i corleonesi perché non erano conosciuti dai mafiosi palermitani, mentre loro sapevano benissimo quali erano i bersagli da colpire. Fu così che partendo dall'uccisione di Placido Rizzotto nel 1948 la mafia corleonese divenne padrona fino agli anni 90, quando Liggio, catturato a Milano, era stato già sostituito da Riina e Provenzano.

Dopo 64 anni, finalmente, sono stati ritrovati i resti scheletrici del sindacalista sequestrato e ucciso dalla mafia nel 1948. Mi unisco a quanti chiedono ormai a gran voce e giustamente (David Sassoli, Walter Veltroni, Vincenzo Vita, Giuseppe Giulietti) i "Funerali di Stato per Placido Rizzotto"

Per dire che lo Stato non dimentica.. Per dire che la Mafia non vince..  Per ricordare ai più giovani che un uomo è stato ucciso perchè ha lottato per la giustizia e la libertà.

giovedì 12 gennaio 2012

Menfi, presentazione “Mafia SpA”

Sabato 14 gennaio, alle ore 17.00, sarà presentato, presso la Biblioteca Comunale in Piazza Vittorio Emanuele, l’ultimo libro di Benny Calasanzio “Mafia SpA. Tutti gli affari della più grande impresa italiana.”. L’evento e stato oragnizzato dall’associazione civica “Menfi Vive”, con la collaborazione dell’associazione “Genitori e Figli” di Menfi, l’Istituzione Culturale “Federico II” e l’associazione nazionale “Etica e Politica”.

Oltre all’autore Benny Calasanzio saranno presenti:
  •  Sonia Alfano, europarlamentare e presidente dell’Associazione Nazionale Familiari Vittime di Mafia;
  •  Salvatore Vella, magistrato della Direzione distrettuale antimafia di Palermo applicato a Marsala;
  • Ignazio Cutrò, testimone di giustizia;
  • Chicco Alfano, figlio del giornalista Beppe Alfano, ucciso dalla mafia nel 1993.
In un paese in piena crisi economica, con lo spauracchio di affondare e di vivere la stessa situazione di Grecia e Argentina, c’è una sola azienda che può vantare utili da capogiro e un trend in costante cresita: si tratta di Mafia Spa. Non ne troverete la sede. Non ne riceverete le telefonate pubblicitarie. Non ne guarderete gli spot in televisione. Non ne osserverete le scalate bancarie. O almeno, non ancora.

Benny Calasanzio, in anteprima esclusiva, snocciola cifre e dati dai rapporti 2011 della Dia, di Legambiente, Sos Impresa e altri documenti inediti: numeri impressionanti per la loro mole di centinaia di miliardi di euro e perché costruiti sul sangue innocente di cittadini comuni. Scoprirete che mafia, camorra, ‘ndrangheta e sacra corona unita sono ramificate in tutta la penisola. Scoprirete che la banda della Magliana esiste ancora. E scoprirete che i dati forniti dal Ministero degli Interni non sembrano collimare con la realtà di un’Italia ancora strozzata da vili criminali.

Ecco il link dell’evento su facebook http://www.facebook.com/events/148061638639279/

lunedì 2 gennaio 2012

Salvatore Cuffaro: “ho sbattuto contro la mafia”

"Ho sbagliato, ho fatto tanti errori, sono andato a sbattere contro la mafia". Lo ammette ai microfoni di SkyTG24, l'ex presidente della regione Sicilia Salvatore Cuffaro, condannato in Cassazione a sette anni per favoreggiamento aggravato a Cosa Nostra. Una sentenza che sottolinea di aver accettato con grande dignità: "Sono stato condannato e sto pagando. Non mi sono mai posto il problema se sono l’unico a pagare o se ce ne sono altri che non stanno pagando. A me è capitato ed è giusto che lo faccia".

Dal carcere di Rebibbia, visibilmente dimagrito, Cuffaro parla dei rapporti tra mafia e politica: "Purtroppo la mafia è un problema serio che c'è ancora nella nostra terra, fa economia, business, non fa volontariato. E' costretta in qualche modo a ragionare con la politica perché il business, la grande economia, passa anche per la politica". E aggiunge: "Sono convinto che al 99,99% dei siciliani la mafia fa schifo. So che qualcuno ironizzerà su quello che sto dicendo, qualcuno potrà pensare da che pulpito viene la predica. Ma non voglio parlare del mio processo. E' però fuori di ogni dubbio, che nella mia coscienza ci sia la consapevolezza di quanto faccia schifo la mafia".

Nell'intervista rilasciata a SkyTG24 l'ex governatore della Sicilia confessa anche le difficoltà della vita da detenuto. "E’ un anno che sono a Rebibbia. Il tempo sembra essere volato anche se ho avuto tempi difficili. Ora ho ritrovato una mia serenità, un mio equilibrio. Ma ho affrontato un periodo di sofferenza non indifferente. L’atto che più mi ha ferito è stato quando uno dei ragazzi dei Ros ha deciso di mettermi le manette”. E ancora: "Non è stato facile passare da presidente della Regione a detenuto. Qui non si può essere indifferenti e non si può essere arroganti". Come sarà questo primo Natale in carcere? "Le feste sono un attimo di amarezza e di tristezza maggiore per chi è in una cella. Ma il Natale arriva anche per i detenuti". Infine, sul futuro che lo aspetta fuori dal carcere: "Proverò a laurearmi in giurisprudenza e spero di potermi dedicare alla mia azienda agricola".

Clicca qui per vedere l'intervista rilasciata a SkyTG24 da Salvatore Cuffaro nel carcere di Rebibbia.

venerdì 28 ottobre 2011

Mafia, Salvatore Cuffaro ricorre alla Corte di Giustizia europea per violazione diritto a 'equo processo'

Il 22 gennaio scorso la sentenza della Cassazione conferma la condanna a sette anni a Salvatore Cuffaro per favoreggiamento aggravato a Cosa Nostra e violazione del segreto istruttorio. Passano poche ore e per l’ex presidente della Regione Sicilia si aprono le porte del carcere di Rebibbia (leggi intervista). E oggi trascorsi oltre 9 mesi da quel giorno arrivano importanti novità.

Il perito che inchiodò Cuffaro confermando di aver udito la famosa frase “Ragiuni avia Toto’ Cuffaro" avrebbe dichiarato più volte davanti al giudice Raimondo Lo Forti, che presiedeva nel 2006 il processo Miceli, di non essere sicuro che questa frase fosse stata effettivamente pronunciata. Ma non basta. Incalzato più volte dal Presidente del Collegio e dai difensori dell’imputato Miceli avrebbe dichiarato anche di non essere un tecnico, di “non essere un esperto” (ascolta il file audio - Per ascoltare l'audio bisogna scaricare ed installare gratuitamente il lettore multimediale RealPlayer -).

La notizia, del ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo per avere ''diritto a un equo processo'' (art.6 Convenzione europea dei diritti dell'uomo), ha riacceso i riflettori sul processo che ha portato alla condanna a sette anni di carcere per l’ex governatore della Regione Sicilia, Totò Cuffaro. Fra i vari punti oggetto di contestazione da parte dei legali di Cuffaro, ci sarebbe la superperizia su una intercettazione ambientale dove, secondo quanto dichiarato dal perito del Tribunale, Roberto Genovese, la moglie del boss Guttadauro, Gisella Greco, avrebbe pronunciato la frase “Ragiuni avia Toto’ Cuffaro”.

Da quanto trapelato, tale intercettazione secondo i legali avrebbe avuto un ruolo importante nella condanna. Prodotta infatti all’interno del processo Miceli è stata acquisita come prova nel processo Cuffaro. Ma è proprio sulla udibilità di questa frase nell’intercettazione che si addensano oggi i maggiori dubbi.

Sembrerebbe infatti, come si evince dalle dichiarazioni dello stesso Genovese davanti al presidente del collegio giudicante (file audio pubblicato da Radio Radicale) che l’udibilità di questa frase non fosse del tutto chiara neanche a lui. Il perito, d’altra parte, sempre in quella sede, si sarebbe professato non esperto. Durante il processo Miceli il Tribunale fece affiancare Genovese anche da Giampaolo Zambonini, un tecnico della Polizia scientifica di Roma. << E’ stato operato un ascolto –affermò Zambonini- un ascolto da parte di un gruppo di dieci persone, appartenenti al servizio della scientifica. Il file audio è stato fatto ascoltare circa 10 volte agli operatori, singolarmente e in tempi diversi. Nessuno degli operatori è stato in grado di individuare il nome “Totò Cuffaro” autonomamente. Solamente dopo aver selezionato la parte oggetto di indagine, gli operatori sono stati concordi sulla presenza auditiva delle sole vocali “O” ed “A”. >>

Ma il Tribunale ha ritenuto attendibile soltanto la tesi di Genovese così come la Corte d’Appello, che ha aggravato la pena a Cuffaro con il riconoscimento dell’aggravante di aver voluto favorire la mafia. A concordare con il perito Genovese fu anche il consulente dell’accusa Baldassare Lo Cicero. La sentenza di condanna è comunque passata in giudicato e Cuffaro dovrà scontare sette anni di carcere.

Ai sensi dell’articolo 35 della Convenzione, la strada della Corte europea dei diritti dell’uomo, puo’ essere percorsa soltanto dopo l’esaurimento delle vie di ricorso interne ed entro sei mesi dalla data della decisione interna definitiva.

Il pool di esperti quindi sostengono che quella frase non sarebbe mai stata pronunciata da Totò Cuffaro. Una tesi che potrebbe certamente smontare il processo su cui è già stata scritta la parola fine.

mercoledì 3 agosto 2011

Menfi, base operativa di Matteo Messina Denaro

Le strategia hanno in questo momento il massimo delle priorità per Matteo Messina Denaro. Obiettivo principale è l'allargamento del suo dominio di fatto, e non solo a parole, nell'Agrigentino. La strategia del super latitante è chiara e per metterla in pratica sta usando tutto il suo potere racchiuso nel prestigio tacito datogli dai palermitani e dalla sua immensa rete di fiancheggiatori. Così le fonti investigative e confidenziali hanno scoperto che Messina Denaro ha deciso quale deve essere la sua base strategica nella provincia di Agrigento. La scelta è stata fatta: la sua base è il paese di Menfi.

Inizia così l'articolo "Menfi base operativa di Matteo Messina Denaro" scritto da Luigi Bianco per la rivista 'FuoriRiga' ideata e diretta da Gero Tedesco. Parole che hanno sicuramente scosso la piccola comunità menfitana e che hanno riportato nella mente dei cittadini, tematiche incresciose e raccapriccianti quali la mafia.

Ma ritorniamo all'articolo...
Il superlatitante Matteo Messina Denaro è il nuovo capo dell'Agrigentino è ha installato una vera e propria base operativa a Menfi dalla quale controlla tutti i paesi del Belice e Sciacca e cerca di sbarcare a Ribera. Si legge inoltre che il boss ha inviato nel paese uomini fidatissimi che oltre ad essere dei semplici messaggeri fungano anche da 'tutor' per istituire "picciotti" e neo boss locali che non hanno ancora l'esperienza criminale per reggere una tale responsabilità di collegamento e di epocale assalto all'Agrigentino. Menfi è interessata del resto da interesse economici, dal punto di vista delle infastrutture, che fanno gola al superboss trapanese sempre a caccia di nuova linfa per le casse del suo clan. Si tratta del porto turistico di Porto Palo di Menfi, un'opera pubblica da 26 milioni di euro (cifra che oggi si aggira intorno ai 44 mln di euro). Il porto turistico, sorgerà integrandosi con l'esistente borgo marinaro, ma in continuità fra vecchie e nuove strutture e non solo luogo di di attracco per oltre 340 yacht e 34 pescherecci, ma anche un importante banco di prova dell'imprenditoria locale. il progetto prevede anche la realizzazione di strutture ricettive con 80 posti letto, locali commerciali di ristorazione e servizi. Non mancheranno gli uffici tecnici e amministrativi, dalla Guardia Costiera alla Torre di Controllo e nuovi parcheggi (circa 200 posti auto).

Gli investigatori che operano nel Menfitano hanno notato da tempo anche particolari contatti fra il 'mondo sociale' apparentemente sano e uomini vicini ad ambienti della malavita organizzata. Rapporti che sarebbe favoriti anche da una forte presenza di frange di massoneria deviata che avallerebbero l'influenza di Messina Denaro e sarebbero anche interessati ai consistenti flussi di "soldi puliti" che rueterebbero sia attorno alla costruzione del porto turistico ma anche al raddoppio della statale 640 (una delle più imponenti opere degli ultimi anni nella fascia sud occidentale siciliana).

Sulla massoneria menfitana ne parlano al telefono anche Gino Guzzo e Giuseppe La Rocca, entrambi appartenenti alla famiglia mafiosa di Montevago. Intercettati dai carabinieri, etichettano la massoneria di Menfi come "forte, fortissima". Parlano inoltre di un medico di Menfi e lo definiscono come "potente più di un ministro".

Menfi, a causa dell'influenza di Matteo Messina Denaro, è diventata o diventerà davvero la 'base operativa'?! Il dubbio atroce pervade e turba le coscienze di tutti noi, ma piuttosto che tacere preferisco esortare la mia comunità ad informarsi, capire, dibattere, parlare ...  

«Parlate della mafia. Parlatene alla radio, in televisione, sui giornali. Però parlatene». Giudice Paolo Borsellino.


Potete leggere l'articolo completo acquistando l'interessante rivista 'FuoriRiga'.

lunedì 23 maggio 2011

Giovanni Falcone: l’anniversario della strage di Capaci

Cade oggi il XIX anniversario della strage di Capaci in cui persero tragicamente la vita il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Di Cillo, i tre agenti della scorta.

Numerose sono oggi le manifestazioni per ricordare la figura di uno dei giudici, insieme a Paolo Borsellino e tanti altri, che per combattere la mafia e “Cosa Nostra” persero tragicamente la vita solo per essere stati uomini fedeli allo Stato.
Quasi tutte le Istituzioni saranno infatti in piazza oggi per dimostrare affetto al magistrato da parte del mondo dello Stato e soprattutto di cittadini comuni.

Intanto sono già in arrivo al porto di Palermo le navi della legalità, una partita da Civitavecchia e l’altra da Napoli, con a bordo numerosi ragazzi provenienti da tutta Italia.
Nell'anniversario dell'Unità d'Italia – afferma il procuratore antimafia, Piero Grasso – dobbiamo essere tutti uniti e come un'armata di pace conquistare la Sicilia”.

Nell'aula bunker del carcere palermitano dell'Ucciardone (dove si svolse il Maxiprocesso) è previsto il dibattito “Giovanni e Paolo due italiani” in memoria anche del giudice Borsellino. L'evento principale dell'anniversario sarà moderato dal Direttore di Rai 150 Giovanni Minoli e si aprirà con i saluti del Procuratore Generale di Palermo Luigi Croce e del Presidente della Corte d'Appello di Palermo Vincenzo Olivieri.
Vedrà coinvolti il Presidente della Fondazione "Giovanni e Francesca Falcone" Maria Falcone, il Ministro dell'Istruzione Mariastella Gelmini, il Ministro dell'Interno Roberto Maroni, il Ministro della Giustizia Angelino Alfano, il Ministro dell'Ambiente Stefania Prestigiacomo, il Procuratore Nazionale Antimafia Piero Grasso, il Presidente di Confindustria Sicilia Ivan Lo Bello e le testimonianze di studenti, docenti, magistrati e rappresentanti delle Forze dell'Ordine.
Con l'occasione, sarà firmato dal Ministro Gelmini e da Don Marco Mori - Presidente del Forum degli Oratori Italiani - un Protocollo d'Intesa per promuovere l'impegno degli studenti in attività di volontariato sociale e di educazione alla legalità.

Giovanni Falcone e Paolo Borsellinodichiara la sorella di Giovanni, Maria Falcone - sono due eroi moderni con un percorso umano e professionale segnato da un altissimo senso dello Stato, la cui missione ha tracciato un crocevia fondamentale nella storia del nostro Paese. Nell'anno delle celebrazioni per i centocinquanta anni dell'Unità d'Italia, la loro memoria, più vivida che mai, accende un riflettore sui valori fondanti delle democrazie moderne. Democrazie che spesso, per raggiungere il loro compimento, si sono avvalse di uomini come loro. Uomini che hanno donato la propria vita per garantire libertà e giustizia. Che hanno saputo interpretare, con grande sensibilità, un preciso momento storico, offrendo a tutti gli italiani un contributo di amore per la propria patria. L'esempio del sacrificio di Falcone e Borsellino significa oggi fare comprendere a tutti, ma soprattutto ai giovani, quanto sia importante credere e difendere i valori della nostra Costituzione”.

venerdì 20 maggio 2011

Matteo Messina Denaro: Blitz in una masseria a Castelvetrano

L'ultimo identikit di Messina Denaro
Ieri mattina, poliziotti e carabinieri hanno fatto irruzione in un casolare nelle campagne di Castelvetrano. L'indicazione sul presunto covo era arrivata qualche giorno fa dai vertici dell'Aisi (servizi segreti), e sembrava precisa, come quelle che hanno permesso negli ultimi tempi gli arresti di altri latitanti eccellenti di Cosa nostra, da  Giuseppe Falsone a Gerlandino Messina. E' giallo sulle fonti che stanno scompaginando i vecchi equilibri di mafia.

Il blitz è scattato in grande stile, a Castelvetrano, nella storica roccaforte dell’ultimo superlatitante di Cosa nostra, Matteo Messina Denaro. Ieri mattina, prima dell’alba, carabinieri e polizia hanno circondato una masseria, che si trova nelle campagne a una decina di minuti dal centro abitato. Il via libera per l’operazione è arrivato dai magistrati della direzione distrettuale antimafia di Palermo, che coordinano le indagini su Messina Denaro. Sono stati momenti di grande tensione, l’irruzione è durata una manciata di minuti. Ma di Matteo Messina Denaro non si è trovata traccia in quel casolare disabitato, e nemmeno nelle zone circostanti.

Eppure, era arrivata un’indicazione precisa su quella masseria. Repubblica è in grado di rivelare che l’indicazione era anche "qualificata", perché era stata trasmessa pochi giorni fa a polizia e carabinieri dai vertici dell’Aisi, ovvero dai servizi segreti. Proprio come era accaduto nei mesi scorsi alla vigilia di altri fortunati blitz: nell’ottobre 2010, i carabinieri bloccarono Gerlandino Messina, a Favara; nel giugno precedente, la polizia aveva arrestato Giuseppe Falsone, a Marsiglia; e anche nel dicembre 2009, il questore di Palermo Alessandro Marangoni aveva ringraziato pubblicamente le agenzie di sicurezza per il contributo dato alla cattura di Gianni Nicchi. In tutti questi casi, è sempre arrivata un’indicazione precisa sul covo. Anche per Messina Denaro sembrava che il cerchio si fosse già chiuso: ecco perché gli ultimi tre giorni sono stati frenetici alla Procura di Palermo. A coordinare le indagini sulla primula rossa di Castelvetrano sono l’aggiunto Teresa Principato e i sostituti Paolo Guido e Marzia Sabella.
Anche ieri mattina, i vertici della squadra mobile di Palermo e del Ros hanno partecipato a un vertice con i magistrati. Le incognite restano ancora tante sulla latitanza di Matteo Messina Denaro.

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lunedì 9 maggio 2011

Anniversario omicidio Impastato, Bonsignore e Moro



Oggi si ricordano gli omicidi di Peppino Impastato, Giovanni Bonsignore e dell'ex Presidente del Consiglio dei ministri Aldo Moro.
    



PEPPINO IMPASTATO - 9 maggio 1978
Il 9 maggio 1978 Peppino Impastato, giovane militante della Nuova Sinistra e voce di Radio Aut, la radio dalla quale denunciava fatti e misfatti del potere politico mafioso e “sbeffeggiava” il boss Tano Badalamenti, fu ucciso da uomini di Cosa Nostra. Il presidente del Centro siciliano documentazione “Giuseppe Impastato”, Umberto Santino ha dichiarato:  “noi indicammo subito il mandante  in Gaetano Badalamenti” ma purtroppo fu dato credito all’ipotesi dell’attentato terroristico e del suicidio e “si dette eccessivo credito alle dichiarazioni di Buscetta che dava Badalamenti per “posato” da Cosa Nostra già nel periodo dell’assassinio”. L’11 aprile del 2002  la Corte d'assise di Palermo legge il dispositivo della sentenza che condanna Gaetano Badalamenti alla pena dell'ergastolo come mandante dell'assassinio di Peppino Impastato. Il 1 luglio del 2004 la Corte d’Assise d’Appello chiude, dopo il decesso, il secondo processo a carico del boss di Cinisi, morto il 29 aprile 2004  negli Stati Uniti dove era detenuto.
Biografia di Peppino Impastato

VIDEO La storia siamo noi Peppino Impastato




GIOVANNI BONSIGNORE - 9 maggio 1990
La mattina del 9 maggio 1990 Giovanni Bonsignore, alto funzionario della Regione siciliana, aveva preso i giornali e si apprestava ad andare a ritirare l’auto posteggiata all’interno del garage quasi di fronte l’edicola. Ma non farà nemmeno in tempo a raggiungere l’imbocco dell’autorimessa. Un giovane killer, sceso da una moto di grossa cilindrata guidata da un complice, gli si piazzerà davanti all’improvviso e gli esploderà da distanza ravvicinata tre colpi al volto e uno al petto.
«Un delitto d’alta mafia», lo aveva definito l’allora procuratore aggiunto di Palermo, Giovanni Falcone.

ASSOCIAZIONE GIOVANNI BONSIGNORE


ALDO MORO - 9  maggio 1978

Aldo Moro (Maglie, 23 settembre 1916 – Roma, 9 maggio 1978) è stato un politico italiano, cinque volte Presidente del Consiglio dei ministri e presidente del partito della Democrazia Cristiana.
Venne rapito il 16 marzo 1978 ed ucciso il 9 maggio successivo da appartenenti al gruppo terrorista denominato Brigate Rosse.
Dopo una prigionia di 55 giorni nel covo di via Montalcini, il cadavere di Aldo Moro fu ritrovato il 9 maggio nel baule posteriore di una Renault 4 rossa a Roma, in via Caetani, emblematicamente vicina sia  a Piazza del Gesù (dov'era la sede nazionale della Democrazia Cristiana), sia a via delle Botteghe Oscure (dove era la sede nazionale del Partito Comunista Italiano).

VIDEO - ALDO MORO – UN MINUTO DI STORIA - di Gianni Bisiach



Fonte: antimafiaduemila.com

mercoledì 20 aprile 2011

Mafia, l'opzione del terrore

Il super latitante Matteo Messina Denaro
di Umberto Lucentini - 20 aprile 2011

Ci sono diversi motivi per cui Cosa Nostra può tornare a mettere le bombe. Ad esempio, per una prova di forza dei boss detenuti verso alcuni partiti. O per regolare rapporti con le componenti politiche con le quali Cosa nostra ha ancora una interlocuzione».


«La scelta di iniziare una sanguinosa stagione stragista rimane sempre, tra le tante, una delle possibili opzioni della politica criminale di Cosa nostra». Paolo Guido, il pm antimafia che a Palermo segue da più anni le indagini sulla cattura di Matteo Messina Denaro, legge questi giorni di caos istituzionale dal suo osservatorio privilegiato. Ed è un'analisi da valutare con attenzione.

Guido, sostituto procuratore della Dda di Palermo, si occupa delle indagini sul boss di Castelvetrano protagonista delle bombe del '92 e '93 ma anche delle inchieste sulla trattativa tra pezzi dello Stato e mafia, sulle complicità di massoneria e uomini delle istituzioni.

Procuratore, ci sono segnali sul fatto che Matteo Messina Denaro potrebbe essere tentato dal ritorno alla strategia stragista firmata Cosa nostra? L'allarme è stato lanciato di recente da suoi colleghi come il procuratore aggiunto Antonio Ingroia e da esponenti della società civile come Salvatore Borsellino, il fratello di Paolo. La ritiene una eventualità probabile? Ci sono segnali in questo senso?
«Sulla esistenza di segnali ovviamente non posso rispondere. Posso però fare qualche riflessione. La scelta di iniziare una sanguinosa stagione stragista rimane sempre, tra le tante, una delle possibili opzioni della politica criminale di Cosa nostra. Opzione che deve corrispondere ad un preciso obiettivo dell'associazione. In passato è stato quello, tutto corleonese, di mettere in ginocchio lo Stato e costringerlo a trattare.
Oggi potrebbe essere una prova di forza dei grandi boss detenuti in carcere, unici, a loro dire, a pagare per le trascorse collusioni tra Cosa nostra e alcune forze politiche; o la necessità di regolare rapporti con singole componenti politiche o sociali con le quali Cosa nostra ha ancora una interlocuzione, o dalle quali teme ostacoli nei grandi affari pubblici. In ogni caso, Messina Denaro sarebbe l'unico uomo d'onore in grado di governare tali scelte, e ciò per due ragioni. La prima perché è l'ultimo dei boss stragisti ancora latitante; la seconda perché probabilmente è custode dei segreti più inquietanti che hanno attraversato la storia di Cosa nostra».

sabato 16 aprile 2011

Salvatore Cuffaro: «Scontata la pena farò l’agricoltore».

L'ex presidente della Regione Sicilia rilascia un'intervista a Panorama e racconta la sua vita nel carcere di Rebibbia, dove dal 22 gennaio scorso sconta una condanna a sette anni per favoreggiamento aggravato: "Quest'esperienza pone fine alla mia carriera politica. Ho la serenità per capire che si è chiusa una pagina bellissima e affascinante della mia vita. Sette anni di galera sono tanti. E io sono realista. Ricevo migliaia di lettere e le visite degli ex colleghi. Ma non vivo nell'iperuranio. Oggi parlare di Totò Cuffaro interessa, ma fra qualche anno sarò solo un numero. Il mio futuro è la campagna. E una volta uscito da qui farò l'agricoltore, come ho sempre sognato".

Non manca l’attacco a Lombardo, ex fratello politico adesso diventato coltello. "Il suo tradimento", sostiene Cuffaro, "è stata la cosa che mi ha fatto soffrire di più nella vita. Mi ha usato: deve a me la sua elezione, ma il giorno dopo la vittoria ha rotto scientificamente ogni rapporto"


Braccio g8, ultima cella in fondo al corridoio. Salvatore Cuffaro, per tutti Totò, si è alzato alle 7 di mattina dalla sua branda dopo la solita notte insonne, divisa tra invocazioni alla Madonna e sottaciuti patimenti. Ha risposto a qualche lettera, dopo aver bevuto il caffè. Ha corso per un’ora. Poi ha fatto la doccia: «Lunga e calda, il momento più bello della giornata». Tornato in cella, si è vestito con cura: pantaloni blu, camicia bianca a quadretti, maglia di lana viola e orologino di plastica al polso. Arriva in una stanza di Rebibbia rasato, con qualche chilo di meno e l’aria provata. L’uomo più potente e votato della politica siciliana del dopoguerra è in carcere dal 21 gennaio 2011.
Sette anni per favoreggiamento aggravato alla mafia: condanna sancita dalla Cassazione. Cuffaro è stato presidente della Sicilia per sette anni, fino al 2008. Poi è diventato senatore dell’Udc. Infine ha fondato il Pid, partito capofila dei Responsabili. Uomo affettuosissimo, abilissimo, chiacchieratissimo. Ha mosso per anni centinaia di migliaia di voti, con un richiamo elettorale inferiore solo a quello del Cavaliere. Per i prossimi sei anni, sperando nei permessi premio, sarà un detenuto comune.

È una cella piccola, la sua?
No, sarà 16 metri quadrati… Ci sono quattro letti, il bagno e la televisione.

Che vita fa?
Mi alzo alle 7, ma solo perché prima non saprei cosa fare. Mi faccio la barba, dopo siedo al tavolo e comincio a rispondere a chi mi scrive. Ricevo almeno una quarantina di lettere al giorno, da tutt’Italia. Fino a oggi ne ho contate circa 2.500. Le mandano avvocati, imprenditori, politici, alti prelati come il cardinale Camillo Ruini. Ma soprattutto gente umile, che mi ha incontrato una volta o mi ha visto in tv.

E dopo avere sbrigato la corrispondenza?
Vado a correre un’oretta. E poi faccio la doccia: c’è l’acqua calda, e ci posso rimanere quanto tempo voglio. Mi piace questa sensazione di pulizia. Dopo mi rimetto a scrivere e leggere fino a quando non aprono la cella. E studio, perché mi sono iscritto a giurisprudenza. Insomma, cerco di tenermi impegnato. Fino alle 11 di sera, quando spengono le luci.

Dorme?
No, resto con le mani intrecciate dietro la nuca e gli occhi sbarrati. È il momento più difficile della giornata: la notte è terribile. C’è un silenzio inimmaginabile, squarciato ogni tanto da qualcuno che grida, le cornacchie che gracchiano, i gatti che litigano.

sabato 22 gennaio 2011

Il deputato del Pd Panepinto, eletto sindaco a Bivona con il favore della mafia

Avv. Giovanni Panepinto


Rapporto choc dei Carabinieri di Cammarata sulle ultime elezioni amministrative, 2007, al Comune di Bivona. Grazie ad alcune intercettazioni ambientali e telefoniche, poi supportate da altri elementi investigativi, i militari dell’Arma paventano la possibilità che boss di Cosa Nostra abbiano acquistato pacchetti di voti (250 in un caso) per “aiutare” l’allora candidato ed oggi sindaco di Bivona, Giovanni Panepinto, attuale parlamentare regionale del Pd.




Il rapporto investigativo, inoltre, mette in evidenza ulteriori e inquietanti particolari legati non solo al condizionamento del libero voto che sarebbe stato compiuto dal clan mafioso Panepinto (recentemente tre suoi esponenti, i fratelli Maurizio (14 anni e mezzo), Luigi (13 anni) e Marcello (10 anni) sono stati condannati dal Tribunale di Sciacca per mafia ma anche il condizionamento e l’accaparramento di appalti pubblici.

L'avvocato Panepinto si difende dicendo che "Non ho mai barattato voti con nessuno e con nessuna consorteria mafiosa al contrario mi sono sempre fatto garante della legalità nel mio comune.
Probabilmente diventare Sindaco per la terza volta ha dato fastidio a quanti gestivano piccoli e grandi interessi nel Comune di Bivona."

sabato 23 ottobre 2010

Mafia: catturato Gerlandino Messina, il boss latitante di Agrigento.

Il superlatitante di mafia Gerlandino Messina, 38 anni, di Porto Empedocle, inserito nella lista dei trenta più ricercati d'Italia, è stato catturato dai carabinieri del Gis oggi pomeriggio alla periferia di Favara. Era ricercato dal 1999 per associazione mafiosa e vari omicidi. Il 2 febbraio 2001 erano state diramate le ricerche in capo internazionale.
Messina è accusato di essere il killer del maresciallo dei carabinieri Giuliano Guazzelli, assassinato a colpi di arma da fuoco il 4 aprile del 1992 mentre viaggiava su una Ritmo, lungo la statale di Agrigento, all’altezza di Menfi.


Nel covo di Gerlandino Messina i carabinieri hanno trovato tra i documenti che ora saranno analizzati dagli investigatori anche un libro sulla vita di Totò Riina e due pistole, una a tamburo e una semiautomatica con il colpo in canna. L'appartamento era difeso da una porta blindata.

Questo il commento a caldo del Procuratore di Agrigento Renato Di Natale: "Ancora una volta, salvo qualche eccezione, viene dimostrato che i capimafia vivono nel territorio dove operano per non perdere la propria leadership. Un arresto che sancisce la fine dei grandi latitanti che c'erano in questo territorio".

La sua scalata al vertice della mafia agrigentina inizia nel 1986, dopo l'uccisione del padre. La carriera all’interno dei ranghi di Cosa Nostra, culminata nel 2003 con il comando su tutta la provincia di Agrigento, fu favorita anche dal beneplacito espresso verso la sua posizione da Bernardo Provenzano. Dal 2 febbraio 2001 erano state diramate le ricerche in capo internazionale. L'ascesa di Gerlandino Messina corrispose alla parallela caduta di Luigi Putrone, altro capomafia operativo in quella zona fino a quel momento, e costretto a lasciare Porto Empedocle nel 1998. Messina è diventato il numero uno di Cosa nostra ad Agrigento dopo l’arresto di Giuseppe Falsone, il 25 giugno scorso a Marsiglia, nel sud della Francia, di cui era fino a quel momento il "vice". E attualmente sarebbe il numero due di Cosa Nostra.

Con l'arresto del boss mafioso Gerlandino Messina si riducono a 16 i latitanti «di massima pericolosità» inseriti nel programma speciale di ricerca della direzione centrale della polizia criminale. L'elenco, che inizialmente conteneva 30 nomi, è stato via via 'spuntato' con i 28 arresti avvenuti dal 2008 ad oggi: ai criminali catturati sono nel frattempo subentrati altri inseriti nella lista dall'apposita commissione che periodicamente si riunisce.
Tra i latitanti presi spiccano Giovanni Nicchi (mafia), Giovanni Strangio ('ndrangheta), Salvatore Russo (camorra).
Tra quelli da catturare, il più noto è il boss di Cosa Nostra Matteo Messina Denaro.

mercoledì 20 ottobre 2010

Agrigento: la capitale italiana della mafia

La DIA (Direzione investigativa antimafia), dopo un recente studio, ha lanciato l'allarme sulla situazione di Agrigento, considerata "la capitale italiana della mafia". Lo ha reso noto un articolo del giornalista agrigentino Alfonso Bugea pubblicato oggi sul Giornale di Sicilia.

"Una provincia con la 'mafia dentro'". Così è stata definita la città dei templi.
Secondo lo studio della Dia, così come è riportato nell'articolo del Giornale di Sicilia, "il tessuto sociale agrigentino è caratterizzato da collusioni mafiose che rappresentano il fattore di forza dell'organizzazione di cosa nostra che riesce a mantenere una significativa influenza sul territorio".
In base ai riscontri investigativi e agli studi del Censis, nella provincia di Agrigento un elevato tasso mafioso è registrato in 37 comuni su 43 totali.

fonte: agrigentonotizie.it