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mercoledì 25 luglio 2012

Corte Costituzionale: in Sicilia il patto di stabilità non si applica

Ancora una volta, la Regione siciliana ottiene una pronuncia favorevole dalla Corte Costituzionale sul federalismo fiscale ed un riconoscimento delle prerogative dello Statuto Speciale.

Con la sentenza n. 178 depositata l'11 luglio scorso, la Corte ha riconosciuto l'illegittimita' costituzionale delle norme (art. 37, comma 1 secondo periodo e 29, comma 1 lett. k) del decreto legislativo n.
118 del 2011 relative alle disposizioni in materia di armonizzazione dei sistemi contabili in attuazione della legge sul Federalismo fiscale (legge n. 42/2009).

In particolare, le norme impugnate prevedevano l'applicazione della normativa in questione alle Regioni a Statuto Speciale, decorsi sei mesi dall'entrata in vigore dello stesso Decreto legislativo, laddove non fossero stati tempestivamente definiti dalle Commissioni paritetiche delle Autonomie differenziate le norme di attuazione.

La Corte Costituzionale, accogliendo la tesi della Sicilia, della Valle d'Aosta, del Friuli Venezia Giulia e delle province autonome di Trento e Bolzano, ha ribadito l'orientamento gia' emerso dalle precedenti pronunce che incentra sul negoziato tra Stato e Regione la sede ineludibile per l'attuazione del Federalismo fiscale nelle Regioni speciali a tutela delle prerogative costituzionali riconosciute dagli Statuti.
Conseguentemente e' risultata incostituzionale una norma che prevedeva un'applicazione automatica di disposizioni "che si applicano agli Enti ad Autonomia differenziata non in via diretta ma solo se recepite tramite le speciali procedure previste per le norme di attuazione statutaria".

sabato 14 luglio 2012

La commissione Ue boccia le sanzioni della conciliazione

Conclusioni in chiaroscuro per la disciplina tricolore della conciliazione obbligatoria. A trarle è la commissione europea nella memoria consegnata alla Corte di giustizia in vista del verdetto che dovrà verificare la compatibilità del decreto legislativo 28 del 2010 con le direttive comunitarie.
Così, il sistema di mediazione delineato dalla legislazione italiana è censurato nella parte in cui «prevede che il mediatore possa e, a volte, debba, senza che le parti possano opporvisi, formulare una proposta di conciliazione che le parti sono indotte ad accettare per evitare di incorrere in determinate sanzioni economiche».

Un sistema che non permette alle parti di esercitare il diritto di decidere liberamente quando chiudere il procedimento di conciliazione e che, alla commissione, non appare in linea con la ricerca consensuale dell'accordo di mediazione.
Avere previsto delle sanzioni economiche (che per la commissione sono rappresentate dall'esclusione dalla ripetizione delle spese processuale sostenute dalla parte vincitrice che ha rifiutato la proposta del mediatore, nella sua condanna al rimborso di quelle sostenute dalla parte soccombente, dalla condanna al pagamento di una somma pari al contributo unificato dovuto per il giudizio) in grado di incidere sulla libertà delle parti di mettere fine in qualsiasi momento al procedimento di conciliazione ha come effetto quello di limitare in maniera sproporzionata l'esercizio del diritto di accesso al giudice.
Perplessità anche per quanto riguarda il versante dei costi, dove le spese per il procedimento di conciliazione potrebbero essere superiori a quelle per il giudizio in tribunale. Toccherà però al giudice stabilire caso per caso se i costi di una mediazione sono tali da essere sproporzionati rispetto all'obiettivo di una composizione più economica delle controversie.
Tutte osservazioni accolte con favore dal presidente dell'Oua Maurizio de Tilla perché minano alla radice aspetti chiave della disciplina nazionale. Tuttavia la Commissione sottolinea come invece non sono in contrasto con le disposizioni comunitarie le misure che sanzionano la parte che rimane contumace con la possibilità per il giudice intervenuto successivamente di trarre argomenti di prova dalla mancata partecipazione.

Promosso poi, ma solo quello, il pagamento punitivo del contributo unificato. Come pure non appare censurabile la previsione di un periodo di quattro mesi per lo svolgimento del tentativo di mediazione. Una misura che non appare alla commissione tale da comportare un ritardo nell'introduzione e nella definizione di un successivo giudizio. Spetta però al giudice nazionale, anche in questo caso, valutare in ogni singolo caso quando il ritardo (eventuale) può portare alla compressione del diritto di accesso alla giurisdizione.

Avv. Calogero Lanzarone
Fonte: ilsole24ore.com

giovedì 28 giugno 2012

Il Giudice di Pace di Napoli e la mediazione obbligatoria

L’interessante sentenza emessa in data 23 marzo 2012 dal Giudice di Pace di Napoli aggira il problema della mediazione obbligatoria per quanto riguarda le cause rientranti nella competenza del Giudice di Pace.
Nella causa in questione, la controparte aveva sollevato l’eccezione di improcedibilità della domanda per mancato esperimento del procedimento di mediazione obbligatorio di cui al D.Lgs. 28/2010, trattandosi di controversia concernente il risarcimento di danni derivanti dalla circolazione di autoveicoli.

Il Giudice di Pace di Napoli rigetta l’eccezione, sostenendo che il procedimento dinanzi al Giudice di Pace già prevede sia la conciliazione in sede contenziosa, in virtù dell’art. 320 comma 1 c.p.c, che in sede non contenziosa ai sensi dell’art. 322 c.p.c. Per cui, non avendo il  D.Lgs. 28/2010 previsto alcuna abrogazione delle suddette norme del codice di procedura civile, "nel procedimento dinanzi al giudice di pace vanno applicate le disposizioni di cui al libro II, titolo II, dall’art. 11 al 322 c.p.c.".

Una diversa interpretazione, continua il giudice, non solo sarebbe in contrasto con il delineato quadro sistemico ma si rivelerebbe manifestamente illogica. Ed invero l’intento deflattivo che si è proposto il legislatore è stato assecondato proprio dall’istituto del giudice di pace che è nato con lo scopo di favorire la conciliazione delle controversie che può avvenire nella fase giudiziale ex art. 320 c.p.c. ovvero in quella stragiudiziale azionabile ex art. 322 c.p.c.. Pertanto, sarebbe paradossale escludere dal processo conciliativo un istituto che è nato precipuamente per lo svolgimento di tale finalità.
Quindi, il Giudice di Pace di Napoli ha statuito che, nei giudizi instaurati innanzi al Giudice di Pace ed aventi ad oggetto controversie su materie in ordine a cui costituisca condizione di procedibilità il previo esperimento del tentativo di mediazione ex art. 5 del D. Lgs. 28/2010, non si debba applicare la disposizione normativa medesima in quanto a ciò osta la sussistenza degli artt. 320 e 322 del codice di procedura civile, in base ai quali nell’ambito del rito dinanzi al Giudice di Pace sono già contemplati istituti di composizione bonaria delle controversie.

Il giudice aggiunge, inoltre, che comunque il mancato esperimento del tentativo di mediazione non comporta affatto l’improcedibilità della domanda, quanto piuttosto obbliga il giudice ad assegnare alle parti un termine di 15 giorni per la proposizione dell’istante con la fissazione di una successiva udienza dopo la scadenza del termine previsto dall’art. 6 del decreto suddetto (cioè 4 mesi dalla scadenza dei 15 giorni).
La sentenza, ben argomentata, presenta un vizio di fondo, in quanto dinanzi ad una eccezione di parte avrebbe dovuto applicare correttamente la disciplina legislativa, nel senso di riaffermare la obbligatorietà del tentativo di mediazione dinanzi ad uno degli organismi accreditati presso il Ministero della Giustizia, adottando i provvedimenti di cui all’art. 5, comma 1, del D.Lgs. 28/2010 e disponendo il rinvio della udienza, anziché procedere oltre nell’esame del merito. Il non averlo fatto getta un’ombra sulla sentenza del Giudice di Pace di Napoli, che significa di fatto la sostanziale abrogazione della mediazione obbligatoria, e sulla iniziativa di matrice forense volta a riportare dinanzi al Giudice di Pace la conciliazione nella materia delle controversie concernenti le controversie relative al risarcimento danni da circolazione di veicoli e natanti, che trae spunto dalla pronuncia.

Avv. Calogero Lanzarone

No all'accompagnamento coatto

Pattuglia senza etilometro? Seguire gli agenti non è obbligatorio!!!

I giudici della Corte di Cassazione, Sezione IV penale, con la sentenza numero 21192 emessa in data 31 maggio 2012 hanno deciso che “è esclusa la contravvenzione, ai sensi e per gli effetti  dell’articolo 186, settimo comma, del Codice della Strada, per l’automobilista che si rifiuta di seguire gli operatori di polizia al fine di sottoporsi al test alcolemico quando non si sia verificato alcun incidente stradale”. La guida in stato di ebbrezza è un reato previsto e sanzionato dal sopra menzionato articolo 186 del Codice  della Strada, ed il tasso alcolemico consentito per coloro che si mettono alla guida di un qualsiasi mezzo è pari a 0,5 g/l nel sangue. Nella fattispecie oggetto di controversia un automobilista era stato fermato da una pattuglia sprovvista dello strumento per l’alcool test e gli agenti avevano chiesto al conducente di seguirli al fine di sottoporsi, appunto, a tale test presso un comando della polizia stradale distante oltre 30 km. Il conducente, però, rifiutava di seguirli e si allontanava, quindi, a piedi.

Tale soggetto, in conseguenza di ciò, veniva indagato per la violazione del combinato disposto dei commi 2 e 3 dell’articolo 186 del Codice della Strada ed il Giudice per le Indagini Preliminari pronunciava sentenza di assoluzione in quanto il fatto non sussiste.
Questa decisione veniva impugnata dal Procuratore della Repubblica presso lo stesso Tribunale. Il rappresentante della pubblica accusa riteneva che, al contrario di quanto asserito dal Tribunale, non si poteva escludere nella fattispecie concreta l’applicazione dell’articolo 186, comma 3, del Codice della Strada. I giudici della Suprema Corte di Cassazione hanno respinto il ricorso evocando, prima di tutto, il rispetto del principio di legalità in materia penale. Facendo riferimento agli “accertamenti previsti dall’articolo 186 del Codice della Strada, comma terzo, non si prevede la possibilità di accompagnamento coattivo del conducente quindi, in assenza di una simile previsione non si può, ricavare un implicito potere di accompagnamento in capo agli agenti senza, peraltro, incorrere nella violazione del citato principio di legalità”.

Nel caso di specie, sottoposto all’attenzione della Corte di Cassazione, il conducente si era rifiutato di seguire gli agenti in assenza di un obbligo in tal senso, dato che gli stessi non avevano, sul luogo, lo strumento per la misurazione del tasso di alcool nel sangue e che il luogo ove recarsi distava circa una trentina di chilometri. In pratica, quindi, il rifiuto all’adempimento di un obbligo che non sia dettato dal combinato disposto dei commi 7 e 3 dell’articolo 186 del Codice della Strada, non può integrare la contravvenzione prevista dalle citate disposizioni  conseguentemente il ricorso è stato rigettato in quanto il fatto non sussiste.

Avv. Calogero Lanzarone