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mercoledì 23 novembre 2011

Vino, allarme per l'export in Russia. Il caso in Parlamento

Il governo della Russia discrimina le importazioni di vino dall’Italia con un aumento delle imposizioni fiscali. È quanto l’onorevole Calogero Mannino denuncia nell’interrogazione parlamentare rivolta al Presidente del Consiglio Mario Monti, al Ministro degli affari esteri, Giulio Maria Terzi di Sant’Agata e al Ministro delle politiche agricole, alimentari e forestali, Mario Catania.

Secondo i dati Istat, le spedizioni verso Mosca sono passate da una crescita del 91% a marzo 2011 al +25% di giugno. Un risultato ancora positivo ma che evidenzia una significativa battuta d'arresto rispetto al boom d'inizio anno. Rischia così di perdere appeal un mercato che si candidava a entrare, nel giro di pochi anni, tra i primi quattro clienti del vino italiano (alle spalle di Stati Uniti, Germania e Regno Unito).

Le ragioni di questo stop sono da ricercare in due aspetti. Da un lato il nuovo, più pesante, sistema di dazi introdotto all'inizio dell'anno e, dall'altro, il giro di vite sulle licenze degli importatori locali, autorizzazioni senza le quali non è possibile operare.

Le due misure sono state introdotte dal Governo russo per frenare il fenomeno delle sottofatturazioni che portava ad acquistare vini con un valore dichiarato di pochi euro ma che, superata la dogana, vedevano i propri listini gonfiati anche di dieci volte. Per questo è stato introdotto il principio del "customs profile", ovvero un prezzo minimo (differente per le diverse categorie) al di sotto del quale non è possibile introdurre vino in Russia.

Ecco uno stralcio dell'interrogazione a risposta scritta dell'On. Mannino: “In sostanza, la dogana russa ha introdotto il valore minimo (customs profile) per i vini importati: un importo minimo che precedentemente non era previsto e che rappresenta una sorta di valore imponibile su cui calcolare poi dazi, accise e diritti doganali; quindi, se finora le imprese dichiaravano semplicemente i costi di produzione su cui applicare una tassazione alla dogana del 40 per cento, con la normativa oggi in vigore il valore minimo per le etichette italiane sarà di 2,12 euro al litro, mentre per le etichette francesi e spagnole il customs profile sarà di euro 1,22; tale meccanismo genererà un aumento del prezzo finale pari al 30 per cento per il prodotto italiano, contro un massimo del 12 per cento per i vini francesi e spagnoli, con un danno evidente per i produttori italiani. Il mercato russo in questi ultimi periodi era divenuto il quinto mercato di esportazione per l'Italia”.

Fonte: Camera dei deputati - Seduta n. 497

giovedì 16 dicembre 2010

L'intervista di Calogero Mannino

Lillo Mannino, diciotto anni dopo. Le sue vicende giudiziarie, concluse con una assoluzione, dopo il carcere, varie sentenze e centinaia di udienze, sono diventate una pagina di storia. Gianni Minoli ha intervistato l ’ex ministro democristiano, oggi deputato nazionale, a “La storia siamo noi”. Una conversazione intensa, che ha offerto una testimonianza di grande interesse sui rapporti fra politica e mafia in Sicilia.

La mafia oggi è disseminata nel territorio, nella società civile, ci sono perciò più rischi di prima”, ha affermato Mannino, tra l’altro. In passato era localizzabile, si sapeva dove potesse agire e come, oggi la sua capacità d’inquinare è molto più grave, ha aggiunto. Poi ha spiegato che non si può parlare di una solo mafia, ma di mafie, perché ormai la cupola non sembra esistere più.

Durante la conversazione con Minoli, Mannino ha rievocato le tappe della sua vita politica e ha fatto una breve storia della Democrazia cristiana.




Non è vero che la Dc era mafiosa, non lo è mai stata”, ha detto. “Ci sono stati alcuni uomini della Dc legati alla mafia, che è un’altra cosa. Questi legami furono spezzati, è questo che si tentò di fare, nel congresso della Dc dell’83, ed è a questo punto che la mafia reagisce. Ci fu un altro momento di rottura con quegli ambienti, e risale all’elezione di Piersanti Mattarella alla presidenza della Regione”.
Mannino ha rivendicato al gruppo dirigente della Dc, del quale facevano parte Rino Nicolosi e Giuseppe Campione, la volontà di fare pulizia nel partito. E la cosa non fece piacere a quella parte della Dc che era legata ai boss.