venerdì 20 luglio 2012

La Sicilia contro le trivelle: "u mari un si spirtusa"

La Sicilia è una delle regioni italiane dove le compagnie petrolifere, dopo aver ipotecato il passato, potrebbero cancellare il futuro. Cominciando proprio dal mare.

Sono una trentina le richieste prospettive che coinvolgono il solo Canale di Sicilia, per un totale di 13 chilometri quadrati di mare. Così, fermare le perforazioni petrolifere off-shore per tutelare il Canale è diventa un obiettivo condivido per associazioni ambientaliste ed alcuni enti pubblici. Che s'incontreranno il prossimo 27 luglio 2012 presso la sala Blasco del Comune di Sciacca, in provincia di Agrigento.

L’iniziativa -organizzata dal comitato “Stoppa la Piattaforma” e dall’associazione “Apnea Pantelleria”, con il patrocinio dell’amministrazione comunale saccense e di Anci Sicilia- si inserisce in un quadro di proposta più ampio, che vorrebbe spingere il ministero dell’Ambiente all’approvazione di efficaci provvedimenti per la tutela dell’ecosistema del Canale di Sicilia.

Un vero e proprio patrimonio italiano da conservare e preservare. Per questo motivo le suddette associazioni hanno sostenuto fin da subito l'appello di Greenpeace "Diccillu 'o Sinnacu", che fino ad oggi ha visto il sostegno di 25 primi cittadini, su un totale di 46 contattati, toccati da istanze di permessi di ricerche e concessioni. 


Fermare le trivelle per difendere biodiversità ed economie locali, partendo -come è possibile leggere nel testo della petizione- dalla revoca di tutti i progetti di ricerca e di perforazione in mare, dall’istituzione di Siti di interesse comunitario in linea con la direttiva 92/43/CEE e di una Zona di protezione ecologica nel Canale di Sicilia, sulla falsa riga di analoghe misure già adottate nel Mar Tirreno e nel Mar Ligure. passaggio fondamentale che permetterebbe di applicare a questo paradiso naturale le norme dell’ordinamento italiano e del Diritto dell’Unione europea in materia di protezione degli ecosistemi marini. Norme attuali orientate, invece, in direzione opposta. 
Infatti, con il comma 1 dell’articolo 35 del Decreto sviluppo (n. 83 del 22 giugno 2012), riguardante “Misure per lo sviluppo e il rafforzamento del settore energetico” vengono “sanati” tutti i permessi di ricerca, e relative istanze, in corso alla data di entrata in vigore del cosiddetto “correttivo ambientale”, cioè il decreto legislativo n. 128 del 29 giugno 2010, quello che portava da 5 a 12 miglia il limite costiero entro il quale autorizzare prospezione e ricerca di idrocarburi in prossimità di aree protette marine. In sostanza, ricompaiono tutte le autorizzazioni interdette nel 2010. 

Comprese quelle che vertono in acque siciliane, dove a voler sondare, ricercare, bucare ed estrarre gas e greggio sono Northern Petroleum, Audax Energy, Shell, Panther Oil, Nautical Petroleum, Transunion Petroleum e San Leon Energy, con un capitale sociale di 10mila euro. In pericolo la flora, la fauna e i fondali caratterizzati da stupendi canyon sottomarini e formazioni vulcaniche, così come la pesca commerciale; un’attività che, con agricoltura e silvicoltura, costituisce circa il 5% del prodotto interno lordo di una regione che si posiziona agli ultimi posti in Italia per numero di occupati. Uno scacco -in cambio di royalties irrisorie e canoni impercettibili- anche per il flusso di presenze turistiche pari a circa il 39% dell’indotto regionale.

E poi ci sono le spiagge di Menfi, Marsala, Sciacca, il parco archeologico di Selinunte e le isole. Non solo Pantelleria e Lampedusa, ma anche le Egadi con Favignana. Quello siciliano rappresenta un banco di prova importante, per determinare quanto gli interessi estrattivi di gas e di greggio possano incidere sulle economie locali. Un dilemma che ha sempre fatto da sfondo alla storia di un’isola generosa nel rispondere al fabbisogno energetico italiano da fonti fossili. Seconda solo alla Basilicata.

Fonte: altreconomia.it

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