giovedì 3 giugno 2010

Un milione e mezzo a chi dà notizie sul boss Messina Denaro


Gli 007 offrono un milione e mezzo a chi dà notizie sul boss. Ma i magistrati puntano sulla rete che consente al padrino affari milionari e una latitanza sicura.

ll nome di Matteo Messina Denaro crea aggregazione nel trapanese. Compatta politici, mafiosi e imprenditori che si stringono attorno a questo boss di 48 anni. Lo proteggono in latitanza creando una barriera difficile da violare. Le forze dell'ordine lo ricercano dal 2 giugno 1993 perché accusato delle stragi di Roma e Firenze ma anche di centinaia di omicidi commessi fra gli anni Ottanta e Novanta in Sicilia. Oggi, in base alle inchieste che lo hanno coinvolto, si può dire con certezza che Messina Denaro è a capo di una delle più grosse holding europee: imprese e aziende che fatturano complessivamente centinaia di miliardi di euro e che sono intestate a prestanome, magari incensurati.
Ma i ricavi finiscono in tasca allo stragista che si è trasformato in uomo d'affari con la passione per la letteratura e la filosofia. Soldi che servono a creare anche consenso sociale, offrendo posti di lavoro in un territorio in cui la disoccupazione la fa da padrona.

In Cosa nostra è uno degli ultimi padrini di una certa caratura mafiosa rimasto ancora in libertà, un nome pesante che potrebbe sedere al vertice dell'organizzazione criminale e per questo sulla sua cattura si sono concentrati negli ultimi anni gli sforzi della magistratura e delle forze dell'ordine.
Quello che "L'espresso" può rivelare è che sulla testa del latitante il governo ha messo una taglia: una grossa ricompensa per chi lo farà arrestare. A svelarlo è un imprenditore siciliano di cui vogliamo tenere nascosta l'identità, il quale afferma di avere ricevuto nelle scorse settimane la visita di uomini dei servizi segreti che gli hanno offerto un milione e mezzo di euro in cambio di informazioni che possano portare alla cattura di Matteo Messina Denaro. Questo imprenditore che ha accettato di raccontare il retroscena coperto dal segreto di Stato (e di cui "L'espresso" ha trovato conferme da fonti qualificate) in passato è finito in manette perché ritenuto uno dei favoreggiatori del boss trapanese, oltre che un suo prestanome, ma adesso che ha scontato la pena ed è tornato libero, sostiene di non avere più alcun contatto con il ricercato. Di non poter essere d'aiuto.

Gli 007 hanno portato in giro un milione e mezzo in banconote dentro una valigetta e avrebbero bussato anche ad altre porte fra il Trapanese e l'Agrigentino, quasi tutte ad abitazioni di uomini che in qualche modo sono riconducibili alla rete di fiancheggiatori.

Uomini sui quali polizia e carabinieri stanno lavorando nell'ambito delle indagini rivolte alla cattura del ricercato. Quella attivata dagli uomini dei servizi sembra essere una caccia all'uomo e non all'associazione che lo protegge. Il tam tam della taglia si è diffuso, e con esso lo stupore per il modo con cui gli apparati di sicurezza si stanno muovendo, offrendo una somma di denaro relativamente modesta a persone che, proprio grazie alla vicinanza a Messina Denaro, incassano decine di milioni di euro l'anno e non hanno quindi interesse a tradirlo. L'operazione avviata dagli uomini delle strutture che dipendono dalla presidenza del Consiglio, potrebbe avere un obiettivo mediatico: catturare il più famoso dei latitanti costituirebbe un fantastico spot per gridare al mondo che la mafia è stata sconfitta. Ma la realtà sarebbe diversa. Se al boss si dovesse arrivare in maniera chirurgica, senza toccare la sua rete di protezione fatta di politici, uomini d'affari e imprenditori, che ormai da decenni ha inquinato l'economia meridionale e infettato la società civile, questa nuova Cosa nostra riceverebbe piuttosto un regalo. Il sistema messo in piedi da Messina Denaro potrebbe continuare a fare affari e fatturare miliardi senza il sospetto che dietro a imprese apparentemente pulite si muova l'ultimo vero padrino di Cosa nostra. Le mani dei servizi segreti hanno già rimestato in passato nella vita del boss. Gli inquirenti sostengono che Matteo avrebbe avuto contatti con loro. Nel 2004 gli agenti del Sisde, il servizio segreto civile, tentarono di dialogare con il boss trapanese attraverso la mediazione di un politico di Castelvetrano, Antonino Vaccarino, ex sindaco della cittadina dove venne fatto trovare mezzo secolo fa il cadavere di Salvatore Giuliano. Gli 007 sostengono che allora lo utilizzarono come esca nel tentativo di attirare il boss e catturarlo. Ma l'operazione sarebbe fallita per l'imprevisto arresto di Bernardo Provenzano avvenuto l'11 aprile 2006. Vaccarino, interrogato dai magistrati, disse che stava cercando di convincere Messina Denaro a costituirsi, e probabilmente qualcuno stava preparando un accordo. Poi non se ne fece più nulla.

Il politico e il boss si scambiarono però molte lettere, alcune delle quali finite fra le mani dei magistrati, in cui il padrino si firmava come "Alessio", e nelle quali chiedeva l'intervento della politica per aiutare i mafiosi in carcere. Dalle missive emerge la sfiducia del boss verso la politica: "Da circa 15 anni c'è stato un golpe bianco tinto di rosso attuato da alcuni magistrati con pezzi della politica...". "Oramai non c'è più il politico di razza, l'unico a mia memoria fu Craxi ed abbiamo visto la fine che gli hanno fatto fare... Oggi per essere un buon politico basta che si faccia antimafia...". Nelle lettere il boss si racconta diffusamente, fa quasi il romanzo della sua vita: sensazioni, aneddoti, progetti per il futuro. E si paragona a un personaggio letterario, quel Benjamin Malaussène, di professione "capro espiatore", protagonista della saga di Daniel Pennac. Ma c'è un passaggio, rivolto anche ai politici, che ha fatto gelare i polsi ai pm: "Si sentirà ancora molto parlare di me, ci sono ancora pagine della mia storia che si devono scrivere. Non saranno questi "buoni" e "integerrimi" della nostra epoca, in preda a fanatismo messianico, che riusciranno a fermare le idee di un uomo come me. Questo è un assioma".

Minacce tanto più concrete se si guarda indietro, alla "carriera" del mafioso che nel 1993 preparò la strategia stragista insieme a Bagarella e Brusca piazzando le bombe in continente per dare un altro colpo allo Stato, dopo Falcone e Borsellino, e spingerli a "trattare". E che è stato anche il custode dell'archivio di Riina, portato via dalla villa di Palermo in cui il capo dei capi si nascondeva. Un testimone di una stagione misteriosa in cui uomini dei servizi, secondo quanto emerge dalle inchieste sulle stragi Falcone e Borsellino, avrebbero avuto un ruolo nella preparazione delle bombe. In passato gli inquirenti hanno ipotizzato collegamenti fra Matteo e 007, coperture istituzionali e agganci con i colletti bianchi. Qualcosa però adesso sembra essersi spezzato. Nei pochi "pizzini" che gli investigatori sono riusciti in questi anni a sequestrare ai fiancheggiatori del padrino, le uniche cose che emergono sono gli affari. Il boss non ordina omicidi, non pensa più alla strategia terroristica (o almeno questo non trapela dai messaggi) ma il suo interesse è rivolto ad accaparrare i lavori per le grandi opere, alla gestione della grande distribuzione alimentare. Agli affari. Impegni che lo hanno portato sempre di più ad allontanarsi dalla sua famiglia, e per via della latitanza, come lui stesso ammette in un pizzino, non ha mai conosciuto la figlia nata 11 anni fa e che vive a casa della nonna a Castelvetrano. E proprio di questo parlava la madre di Messina Denaro pochi mesi fa con un altro figlio, anche lui indagato per mafia, durante una conversazione intercettata dagli inquirenti. La donna era molto adirata per il comportamento del boss: "Devi dire a tuo fratello che ha una figlia che a dicembre ha compiuto 11 anni e che è arrivato il momento che qualcosa pure a lei la scriva, perché adesso la ragazzina inizia a fare domande sul padre, inizia a capire e lui non può continuare a ignorarla come ha sempre fatto, dimenticandosi anche del compleanno della figlia".

Il fratello tenta di trovare scuse alle mancanze familiari di Matteo. "Si vede che nel posto in cui si trova non può scrivere, non può mandare nulla". La corrispondenza del boss con la propria famiglia, infatti, sembra essere molto lenta, tanto che gli investigatori ipotizzano che il capo mafioso limiti i contatti a tre volte l'anno. Un modo per evitare che possa essere intercettato e risalire alla filiera che lo protegge. Ma è proprio la sua famiglia ad avergli allargato in passato i contatti in Cosa nostra. La sorella del boss è sposata con un mafioso di rango di Palermo, Filippo Guttadauro, e questa parentela ha ampliato il raggio d'azione di Matteo, tanto che per lungo tempo avrebbe trascorso la sua latitanza a Bagheria, alle porte del capoluogo siciliano. I Guttadauro, che sono stati anche a capo del mandamento mafioso di Brancaccio, sono stati coinvolti in diverse inchieste di mafia, ed hanno trovato quasi sempre posto nei salotti buoni della città. Il fatto di arrivare da una famiglia di mafiosi e di essere imparentati con il latitante più ricercato d'Italia non ha impedito a una nipote del boss di intraprendere la carriera di avvocato e a un altro di diventare due anni fa un magistrato della Repubblica. Dopo il periodo di uditorato fatto al tribunale di Roma ha poi scelto una sede nel Nord Italia. Una famiglia che vive molto per la giustizia, ma con la giustizia deve fare ancora i conti.

3 commenti:

  1. In uno stato civile e democratico le autorità non dovrebbero ricorrere alle taglie per catturarlo.

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  2. Mi trovi daccordo.
    Poi, vista l'omertà e la paura che scorre nella zona, i soldi che vorrebbero dare son pochi secondo me.

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  3. SE HANNO MESSO UNA TAGLIA VUOL DIRE CHE NON HANNO GROSSE DIFFICOLTA'

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